Chi c’è in quel capannone?
Una domanda che mi sono fatto tante volte: chi c’è in quel capannone? Stupida forse ma è la più frequente, quella che mi viene mentre osservo i capannoni situati lato strada: costruzioni squadrate e fuori contesto quasi immerse nel mare verde delle campagne che intiepidiscono la traiettoria che ogni giorno mi porta al lavoro. Fabbricati adiacenti a piccole aziende agricole, costruzioni senza pretese di stile che ospitano artigiani che alla meglio inseguono la gloria, semplici rettangoli con finestre dai vetri a presenza alternata. E se anche in quei capannoni ci fossero dei lavoratori al nero? No mi dico. Figurati. È un paese di provincia quello in cui vivo, piccolo, tutti sanno tutto di ognuno.
Ma poi mi rendo conto che io non faccio parte di quelli che sanno o fingono di sapere, o di non sapere…a convenienza ovviamente. Ma di chi faccio parte io? A chi appartengo? Cosa vedo di quello che mi sta intorno e cosa, soprattutto, non vedo? All’improvviso anche io sono a Prato. Sono uno che si alza la mattina, percorre le vie di fianco i capannoni “loschi”; penso che quello è territorio fuori controllo, non mio, mi consolo al pensiero che qualcun altro dovrebbe controllare. Ora sono indignato, perché diavolo questi devono produrre a basso costo e senza controlli, senza regole, esentasse? Che diavolo di paese è questo? Io pago ogni centesimo ad un fisco sempre più prepotente e questi, nascosti dentro i capannoni, fanno i loro comodi.
Mentre parlo ad alta voce di fronte al volante muto della mia auto, sono arrivato all’incrocio che mi porta fuori dalla zona artigianale. Volto a destra, sono su una nuova strada, c’è traffico e ritorno al tran tran quotidiano: ma vedi questo se cammina! Datti una mossa che fra un ora devo essere a Firenze, al lavoro, gli urlo con il pensiero. Caspita! Mi guardo intorno, non sono più a Prato e nemmeno nel piccolo paese della provincia pugliese. Ma dove sono finito? Riconosco i luoghi della mia infanzia, la Calabria, il mio paese natale. Ora, però, sono seduto dietro in macchina, guida mio zio. Vedo due che fuori se le danno di santa ragione. Appiccico il naso al finestrino laterale della 128 station wagon per capire chi sono, riconosco uno dei due, è quello che fa il dritto ogni giorno in mezzo alla piazza. L’altro deve essere un tossico mi dico.
Metto le mani sullo schienale del sedile su cui mio zio sta tranquillamente seduto con il braccio di fuori. Prima che il pensiero finisca sul crinale che porta ad una domanda, mio zio guarda nello specchietto retrovisore e puntando dritto negli occhi mi dice: “fatti i cazzi tuoi!”.